È sabato mattina, alle prime luci della giornata, nell’area verde di Bonutrau (cosiddetto “parchetto”) a Macomer due signore con cucciolo al seguito approfittano del fresco mattutino per la camminata che le rimetta in sintonia con la propria forma fisica o per chiacchierare in beata solitudine.
Qualche decina di metri più in là un gruppetto di cinque o sei ragazzi, poco più che adolescenti, probabilmente reduci dalla nottata passata nel locale vicino a “sconcare” birre alla spina o chissacché, decidono che è il momento di divertirsi a umiliare, vociando, quelle due figure adulte, facendosi vigliaccamente forti del numero e dell’anonimato.
Quindi cominciano prima con gli sfottò sugli auspici di dimagrimento, per poi passare a un vero e proprio body shaming (cosiddetto) urlato e poi addirittura agli insulti pesanti ed espliciti nell’evocazione di figure propense al meretricio.
Le due signore continuano a camminare restando indifferenti alla valanga di improperi gratuiti che pervengono loro, allontanandosi senza dar troppo peso alla situazione, forse perché ritenuta non pericolosa, forse considerando il probabile stato di ebbrezza dei ragazzi, o più probabilmente per quel senso di impotenza determinato dalla situazione che le vede in inferiorità numerica e fisica.
Quanto sopra accaduto ci è stato riferito e così lo riferiamo.
Il fatto, in questi giorni in cui si parla tanto e sotto molteplici aspetti dell’episodio di Caivano (violenza sessuale di gruppo ai danni di due ragazzine dodicenni), pone un legittimo interrogativo sull’appartenenza delle responsabilità di simili comportamenti, sia quelli devianti che quelli di manifesta inciviltà.
Beninteso, dal punto di vista fattuale fra l’episodio di violenza di Caivano e quello di maleducazione sopra riferito corre una differenza abissale. Dal punto di vista morale tutta questo divario non c’è: si tratta sempre di assenza del benché minimo senso del rispetto della persona e della sua dignità; sconoscenza del limite del proprio agire nei confronti dell’altro/a (adulto/a o meno che sia).
All’interrogativo si può dare la risposta, fin troppo ovvia, dell’assenza della famiglia, dell’abdicazione o quantomeno della superficialità nel difficile compito dell’impartire educazione. Ma se è vero che l’ambito familiare non è riuscito in quel compito è anche vero che un ruolo non marginale spetta anche al contesto in cui i ragazzi crescono dal punto di vista sociale ed etico. La chiamata in campo riguarda tutti i soggetti che del contesto fanno parte, compresa la scuola (ovviamente), gli ambiti sportivi, i luoghi del passatempo, ma anche le persone che per strada hanno dovuto prendere atto (come le due signore di cui sopra) di un simile livello di volgarità e violenza, per quanto solo verbale.
Per quanto sia comprensibile che le signore vittime degli insulti non abbiano voluto coinvolgere a difenderle persone terze, che forse avrebbero spostato il confronto sul piano fisico, è da considerare come la mancata censura, se non repressione, di comportamenti similari lascerà i protagonisti nella convinzione di poterselo tutto sommato permettere, quando non di poter addirittura percorrere la strada di gesta ben più infami. Ecco perché è auspicabile che questi segnali, per quanto ci paiano poco significativi, non siano mai banalizzati o peggio lasciati all’indifferenza. Da parte di chi subisce, di chi osserva, di chi intuisce, di chi scrive.
Come mai indifferente e superficiale dovrebbe essere la famiglia nel considerare perché, dove e soprattutto come un ragazzo trascorre l’intera nottata fuori casa e senza controllo, non perché in ciò vi sia necessariamente alcunché di male, ma perché la fatica di educare è un dovere e una responsabilità prima di tutto nei confronti degli stessi figli, per quanto possa renderci impopolari ai loro occhi.